Il paesaggio per C©osmo.
Ibernati in una luce glaciale. E qualcosa… sull’uomo del Similaun.
di Giuseppe Goffredo
Una figura nera rimpicciolita davanti alla grandezza di uno specchio glaciale, ibernata dal freddo alpino negli istanti multi strato del paesaggio. E’ qui il logo precipitato nel fondo di una memoria che risale nell’obbiettivo del fotografo da un’era primordiale, quando egli ha vissuto a contatto con la luce di una possibile glaciazione primaria. Il dato biografico coincide con uno scarabocchio scuro lasciato nel proscenio quasi a delineare la soglia conscia e inconscia, fisica e metafisica della rappresentazione; mentre alle spalle si apre la vastità del fondale delle montagne che lacrimano scivolando in un grande lago ghiacciato. Il dato biografico e quello metafisico in questa fotografia “A un passo dal cielo” di Cosmo Laera finiscono per farsi da specchio. Sicché la figura in basso e ferma come un proiettile che si arresta, atterrita in una luce irreale, ed irreale è il segno residuo di una scena che rivela la cifra stessa del paesaggio. L’irrompere prepotente del tempo che si verticalizza e ghiaccia. Il presente gela nell’occhio e conserva il tempo nell’attimo in cui è.
Il Paesaggio per C©osmo: dando a questo parola la doppia accezione: maiuscola e minuscola intendendo ciò che è ricercato nel lavoro di Cosmo e ciò che è capace di rivelarsi appunto nel cosmo del paesaggio: interiore, psichico, fisico metafisico.
C’è un dato che mi interessa qui rilevare nella fotografia di Laera ed è: la presenza dell’uomo di spalle. Nella prima fase della mia analisi d’istinto ho pensato al pittore tedesco Caspar David Friedrich, che amava porre le sue figure di spalla mentre osservano la luce del paesaggio. In questo modo chi guarda il quadro sa che il nostro è “uno sguardo di spalle” nel senso che: chi guarda di spalle, sa, che alle sue spalle c’è qualcuno che lo guarda; come dire la presenza di spalle avverte la presenza alle sue spalle e così via. In questo effetto specchio all’infinito ognuno vede alle spalle dell’altro, sicché comprende sé e la presenza dell’altro.
Così lo sguardo del paesaggio entra come dire in una sequenza infinita di sguardi e ognuno di essi è differente e vero; e al tempo stesso ognuno di essi può comprendere questa sequenza allo specchio. Questo però, in un certo senso ci riporta all’invenzione stessa della fotografia, che a differenza della pittura che ha inventato il paesaggio significato, considera la realtà moltiplicabile all’infinito, e ogni riproduzione, nell’infinito dei suoi dettagli ed esperienze replicabile. Spettri di presenze, appunto, che all’improvviso, da Louis Daguerre in poi, sconvolgono la definizione di spazio e di tempo composti in un’immagine.
Cos’è un’immagine fotografica? E noi dentro il suo apparire chi siamo? Queste domande hanno generato sgomento, gettando nel panico gli individui. E ora che siamo totalmente gettati nell’epoca dell’immagine e della fotografia l’orrore della presenza si è moltiplicato fino all’inverosimile. Sicché se la pittura è stata generatrice di significato al contrario la fotografia è diventata nuda esperienza della vista: l’osservabile di chi si può ingegnare a scattare ogni insignificante circostanza e moltiplicarla all’infinito.
Ed ecco l’idea geniale di Laera, egli applica alla nuda esperienza del paesaggio, la figura di spalle che guarda. Laera in altri termini introduce un elemento di scena per codificare il senso, sparigliare così le carte di chi guarda. Egli suggerisce l’orrore della presenza nella storia della fotografia e al tempo stesso, attraverso la figura umana di spalle, introduce uno sbarramento di senso. Così il naturale e il teatrale si ricompongono ed esplodono al tempo stesso verso l’inesprimibile e l’incomprensibile. Quello che vediamo nella fotografia dei paesaggi di Laera è ciò che c’è e si rivela come il nulla dell’essere nella sua forma naturale. Il suo precipitare verticale verso l’irra-presentabilità che pure è rappresentato dalle figure di spalle. In questo senso viene tracciato qui l’asse verticale e orizzontale dell’essere, ciò che i Sumeri designavano come l’Apsû, l’abisso, ovvero ciò che è là, davanti a tutti, che tutti vedono, che le definizioni nominano, ma che in un attimo sfugge a se stesso e a noi, e piomba di nuovo nell’incomprensibile e nell’inesprimibile. Tutto è chiaro e tutto non è. Sicché il visibile diventa velo dell’invisibile suo brivido e carezza perturbante.
Ma vedo qualcos’altro che aleggia nel paesaggio visto da Cosmo Laera ed è la sua luce. Anche qui l’iceberg è un indizio. Poiché la luce indica per quanto mi riguarda una percezione pura dell’apparire.
Il paesaggio nel suo apparire non sa nulla e non desidera sapere nulla, egli non si calcola teleologicamente come fine. Egli non prevede l’essere umano se non come intruso. Il paesaggio si spalanca come sguardo puro, egli sa parlare da solo con la sua luce. Così percepisco nelle fotografie scattate da Cosmo Laera quasi sempre un inquietudine che si addensa proprio nella rarefazione dell’immagine. Serpeggia nelle sue immagini un presentimento di quello che è. E come se Laera dicesse: il fuori di me che ti racconto è il vero ma non è il solo vero che vedi. Il vero che ti mostro è una vertigine di ciò vedi. Per questo chi di spalle guarda quello che tu guardi, come in una sequenza parallela vede ed è visto e costruisce la sequenza infinita del vedere, l’inganno irrimediabile del vedere: quello che nel visibile mai sarà visibile. La perdita, la rovina, la bellezza, ciò che ontologicamente è iscritto nella luce delle cose. Per questo Laera nello scarto fra l’immagine e lo sguardo introduce l’impossibilità di vedere: un residuo insidioso: l’interrogativo sulla vicenda umana di fronte alla natura. E a quell’interrogativo consegna l’inquietudine del nostro destino, scritto sulle spalle di ognuno che guarda.
In certo senso, accentuando la presenza teatrale dei personaggi di spalle, Laera vuole in parte ridicolizzarli e dall’altro dargli una valenza drammatica. Ma il suo vero significato è de-verbalizzare, ovvero liberare dallo sguardo umano la natura. L’uomo ir-resiliente e sicuramente responsabile con la sua verbalizzazione della possibile distruzione della natura e rovina di quello che egli stesso ha costruito con le sue mani. Egli non si è arreso né alle leggi superiori, né alla bellezza sovrana della natura. La specie umana che guarda le cose e il paesaggio, non vede, e per questo che sulle sue spalle si addensa l’ombra della catastrofe.
La rivelazione dell’ir-resilienza inequivocabilmente ci sta davanti, lo stiamo costatando: nulla è più nulla ma al tempo stesso è visibile rovina e bellezza, irreparabilità e mistero delle cose. Inevitabilmente la specie umana contempla la sua caduta e al tempo stesso l’immobile agonia della sua presenza e assenza. L’uomo davanti al paesaggio man mano rimpicciolisce arretra nella rinuncia, attua una lunga sparizione che precipita nel Apsû, nell’abisso del nulla.
E’ questa la “percezione del C©osmo” nelle due accezioni maiuscola e minuscola: suprema consapevolezza lucidata a specchio. Come l’uomo del Similaun trovato a pochi passi da qui nella valle Venosta:
La diga si ruppe e precipitò nel tempo
la sua ascia da caccia ghiaccia fra le sue mani.
L’uomo intorno sentì il rumore del silenzio nel naso.
Un fremito inspiegabile. Una distrazione dell’aria.
A un passo dal cielo.
Giuseppe Goffredo
ARTRIBUNE
GALLERIA KUNSTRAUM
DOLOMITI.IT
more
778C0C04_0D42_476E_B813_B81FB9691F1E.jpeg (151.76 KB)